LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE Ha emesso la seguente ordinanza sul ricorso n. 1293/00 depositato l'8 maggio 2000, avverso S/RIF SU I.RIMB n. 04-06-99 - I.R.P.E.F. contro Agenzia delle Entrate ufficio di Genova 3 (D.R.E. Liguria - Sez. Genova) proposto da: Provincia di Genova Istituto Figlie Maria SS. dell'Orto sal. nuova n. S. del Monte 3 A - Genova, difeso da: Bertolli Gianluigi, piazza della Repubblica n. 3 - Milano. Svolgimento del processo Con istanza in data 4 giugno 1999 l'Istituto Figlie Maria SS. dell'Orto con sede in Genova, salita ns. Signora del Monte 3, chiese il rimborso della somma di L. 126.956.000 complessivamente versata parte nel 1997, parte nel 1998 a titolo di anticipato versamento di ritenute su accantonamenti per T.F.R. di cui all' art. 3, comma 211, della legge n. 662/1996 e successive modifiche; norma in base alla quale i sostituti di imposta per i redditi di lavoro dipendente erano tenuti al versamento di un importo percentuale dell'ammontare complessivo dei trattamenti di fine rapporto maturati al 31 dicembre degli anni 1996 e 1997 a titolo di acconto delle imposte dovute su tali trattamenti ai dipendenti. Dedusse che tale anticipato versamento si discostava profondamente, sia nella forma che nella sostanza, dal normale sistema della sostituzione nel debito di imposta, determinando a carico delle imprese pesanti oneri finanziari e patrimoniali non comparabili con nessun'altra forma di sostituzione, e cio' sia in relazione ai tempi dell'anticipazione (mediamente calcolabili in molti anni) di gran lunga maggiori rispetto ai normali termini temporali del rapporto sostituto - sostituito, sia in relazione alle modalita' dell'anticipazione, cui non facevano fronte somme resesi disponibili ai dipendenti sostituiti (non essendosi ancora verificata 1' interruzione della prestazione lavorativa), bensi' somme del datore di lavoro stesso. Ed osservo': a) che tali oneri finanziari e patrimoniali, per la loro stessa entita', finivano per tradursi in una vera e propria forma, sia pure mascherata, di prelievo fiscale, tanto piu' grave e ingiustificata in quanto destinata a far ricadere su una particolare categoria di soggetti (le imprese, e neppure tutte) in via esclusiva e discriminata, e al di fuori delle condizioni e delle garanzie dettate dall'art. 53 della Costituzione, la parziale copertura di un costo pubblico che avrebbe dovuto invece gravare sull'intera collettivita'; b) che tutto questo costituiva una palese violazione non solo del generale principio di eguaglianza tributaria di cui agli articoli 3 e 53 della Costituzione, ma altresi' del fondamentale principio della capacita' contributiva affermato dall'art. 53 della Costituzione, trattandosi di un prelievo coattivo di ricchezza non correlato ad alcuna concreta manifestazione di capacita' contributiva, in quanto il numero, il livello retributivo e l'anzianita' dei dipendenti, cui era ed e' ragguagliato l'accantonamento per il T.F.R., non potevano in alcun modo considerarsi manifestazioni, neppure indirette, di reddito o di patrimonio. Avverso il silenzio rifiuto serbato dall'ufficio sulla propria istanza l'istituto propose ricorso in questa sede reiterando nei motivi di doglianza gia' oggetto della fase amministrativa del giudizio. L'ufficio, costituitosi, contesto' preliminarmente l'inammissibilita' del ricorso poiche' la richiesta di rimborso traeva fondamento da un sospetto di incostituzionalita' della normativa fiscale di riferimento, non denunziabile dinanzi ad un organo amministrativo (la direzione regionale delle entrate cui 1'istanza era stata indirizzata) chiamato al rispetto della disciplina in vigore. Il silenzio rifiuto, quindi, non poteva sostenersi essersi legittimamente formato (e conseguentemente non poteva essere in questa sede impugnato) perche' l'omessa pronuncia non era dipesa da un inadempimento dell'ufficio, bensi' da un obbligo giuridico di doveroso rispetto della normativa in vigore che avrebbe comunque imposto la reiezione della domanda. Nel merito contesto' le opposte pretese delle quali chiese il rigetto denunziandone la fondatezza. All'udienza odierna la presente vertenza e' stata trattenuta in decisione e definita come da dispositivo. Motivi della decisione 1. - Se fosse vera la tesi dell'ufficio, secondo cui il contribuente che richieda in via amministrativa la restituzione di somme corrisposte sulla base di una normativa sospettata di incostituzionalita' non potrebbe impugnare il silenzio formatosi sulla propria istanza dinanzi alle commissioni tributarie non potendo denunziarsi nella fase amministrativa l'incostituzionalita' di una norma, lo stesso vedrebbe gravemente compromesso il proprio diritto di difesa costituzionalmente garantito, perche' gli verrebbe privata la possibilita' di adire la giurisdizione stessa per effetto di un sistema in base al quale il rimborso di somme indebitamente corrisposte a titolo tributario deve necessariamente passare attraverso la via amministrativa. In realta', anche se e' vero che il ricorso giurisdizionale tributario presuppone normalmente l'esistenza di un atto impugnabile essendo rivolto a provocare un accertamento sul rapporto mediante la contestazione della pretesa impositiva dell'amministrazione finanziaria, il decorso del tempo previsto dall'art. 21 del d.lgs. n. 546/1992 (in precedenza stabilito dall'art. 16 del d.P.R. n. 636 del 1972 e successive modificazioni) e' previsto non solo e non tanto per determinare il formarsi della fattispecie legale del silenzio-rifiuto, quanto per consentire all'amministrazione di valutare se l'istanza di restituzione sia fondata e quindi di evitare liti inutili. Se cosi' e', ne deriva che non e' necessario che tale disposizione si applichi nel caso di una pretesa restitutoria che, contestando in radice l'obbligazione tributaria e lo stesso potere di imposizione sotto il profilo della dedotta incostituzionalita' della norma istitutiva del tributo, non lasci alcun margine di valutazione alla pubblica Amministrazione (cfr. Cass. 24 maggio 1988, n. 3606). Questa infatti, essendo tenuta ad applicare detta norma ed a conformare ad essa la propria azione senza potere sollevare questione di costituzionalita' e senza nulla potere deliberare al riguardo, non puo' che rifiutare la chiesta restituzione; cio' che in realta' e' accaduto, in quanto l'amministrazione ha lasciato vanamente decorrere, a fronte della presentazione della istanza di restituzione dell'istituto, lo spatium deliberandi, cosi' rifiutando il rimborso ed anzi resistendo in giudizio alla relativa pretesa. Deve quindi concludersi nel senso che, qualora sia contestato in radice il potere impositivo della p.a. e quest'ultima non abbia alcuna possibilita', se non violando una norma vigente, di accettare in tutto o in parte la pretesa del ricorrente, quest'ultimo possa anche evitare il passaggio della fase amministrativa - che a questo punto finisce per diventare un inutile formalismo - proponendo direttamente le proprie istanze alla giurisdizione tributaria. Ove il ricorrente abbia comunque sperimentato la via del rimborso amministrativo, non per cio' deve essere sanzionato con la declaratoria di inammissibilita' del ricorso giurisdizionale avendo percorso un passaggio in piu' del quale egli solo, se mai, potrebbe avere motivo di dolersi. 2. - Cio' precisato l'indagine si sposta sul fondamento della pretesa dell'istituto; il quale sostanzialmente lamenta l'incostituzionalita' del sistema fiscale per cui, quale sostituto di imposta, e' stato chiamato a versare all'Erario una percentuale sugli accantonamenti per trattamento fine rapporto dei propri dipendenti, per violazione degli articoli 3 e 53 Cost. Come e' noto, per effetto dell'art. 3, comma 211 della legge n. 662/1996 cosi' come modificato dall'art. 2, primo comma, del d.l. n. 79/1997, e' stato istituito l'obbligo gravante sui sostituti di imposta per i redditi di lavoro dipendente di versare un importo percentuale sull'ammontare complessivo dei trattamenti di fine rapporto di cui all'art. 2120 c.c. maturati al 31 dicembre del 1996 e del 1997 a titolo di acconto delle imposte dovute su tali trattamenti dai dipendenti. Con riguardo all'istituto del trattamento di fine rapporto, in giurisprudenza si dibattono da tempo due orientamenti, sorti a seguito della riforma attuata con la legge n. 297 del 1982. Il primo riconosce che il diritto al trattamento maturi progressivamente in costanza di rapporto e quindi costituisca un diritto liquido del lavoratore, la cui sola esigibilita' rimane differita al momento della cessazione del rapporto stesso (cfr. Cass. 89/2921; Cass. 89/4933); il secondo, invece (cfr. Cass. 90/55; Cass. 88/6468) ritiene che la fattispecie costitutiva di tale diritto non si perfezioni prima della cessazione del rapporto. Il diritto al T.F.R. nasce, secondo tale tesi, con la cessazione del rapporto, mentre l'accantonamento contabile di una quota annua di tale emolumento non comporta un'acquisizione periodica del diritto, rappresentandone solo una modalita' di calcolo. A detta tesi aderisce una larga parte della dottrina che costruisce l'istituto (ed il conseguente diritto del lavoratore) o come aspettativa di mero fatto o di diritto, ovvero quale diritto di credito a termine incerto, ovvero ancora come una fattispecie a formazione progressiva nella quale il diritto sorge con la costituzione del rapporto, si accresce con esso e si completa con la cessazione che finisce per costituire l'ultimo elemento costitutivo della fattispecie medesima. Un prevalente orientamento dottrinale, sorto sulla scia della vecchia indennita' di anzianita', ritiene poi che anche per il nuovo trattamento il diritto del lavoratore nasca solo al momento della cessazione del rapporto che costituisce elemento della fattispecie costitutiva e non termine di adempimento, sussistendo in precedenza meri accantonamenti contabili. Seguendo tale filone interpretativo, che sembrerebbe essere prevalente, la normativa in rassegna non apparirebbe in linea con i parametri di costituzionalita' denunciati. Se e' vero, infatti, che il diritto al T.F.R. sorge per il lavoratore al momento della cessazione del rapporto di lavoro, e quindi solo in tale momento sorge l'obbligo di operare la ritenuta da parte del sostituto di imposta (secondo lo schema classico della ritenuta alla fonte per cui il sostituto e' tenuto ad assolvere l'obbligo tributario in forza della circostanza che egli ha la disponibilita' delle somme di spettanza del soggetto passivo nei cui esclusivi confronti di verifica la manifestazione di capacita' contributiva [percezione del reddito] colpita da imposta) l'obbligo di anticipare somme a titolo di imposta non ancora del lavoratore equivale nella sostanza ad assoggettare ad imposta somme del datore di lavoro il quale con cio' finisce per pagare con propri danari un debito (futuro) altrui. Tra l'altro secondo lo schema della sostituzione di imposta la verifica della capacita' contributiva dovrebbe essere fatta sul sostituito poiche' egli e' il soggetto percettore del reddito (con la conseguenza che, nulla avendo ancora percepito, nulla dovrebbe corrispondere in quanto privo della capacita' contributiva). Nel caso in esame, invece, ogni indagine in tal senso viene necessariamente meno perche' l'imposta grava su un sostituto che in definitiva finisce per diventare il vero e proprio soggetto passivo di imposta, e addirittura per debiti altrui. E poiche' gli accantonamenti disposti dal datore di lavoro costituiscono un onere esclusivamente virtuale in quanto non correlati ad un vero e proprio versamento, una tassazione reale di oneri virtuali sembra tradursi effettivamente in una imposizione del tutto svincolata dalla capacita' contributiva di un soggetto, garantita dall'art. 53 Cost. Ma anche a seguire il primo orientamento le conclusioni non potrebbero essere molto diverse. Anche a ritenere che il diritto al trattamento sorga dies in diem e non al momento della cessazione del rapporto, in ambedue i casi il diritto alla percezione sorge esclusivamente in quest'ultimo momento, non potendo il lavoratore (se si eccettua il caso delle anticipazioni le quali, in quanto eccezione, finiscono per confermare la regola) richiedere in via normale la corresponsione di alcunche' in costanza di rapporto (allo stesso si riconosce, dalla giurisprudenza prevalente, la sola possibilita' di sperimentare nel corso della vita lavorativa azione di accertamento volta a far constare la computabilita' di una determinata voce della retribuzione nella base di calcolo del trattamento; (cfr. Cass. 19 maggio 1990, n. 4556). Il datore di lavoro, quindi, puo' fare affidamento sulle somme costituenti gli accantonamenti considerandole danaro proprio vuoi perche' effettivamente tale di diritto (se si ritiene che il diritto al T.F.R. sorga al momento della cessazione del rapporto), vuoi perche' tale di fatto (perche', non divenendo esigibile il credito del lavoratore se non al momento della cessazione del rapporto, lo stesso non puo' ancora ritenersi sostanzialmente debitore del lavoratore). E le conseguenze di tale duplice impostazione sono note a tutti poiche' una parte importante dell'ammontare accantonato, proprio perche' non ancora distribuito (ne' distribuibile, almeno in via generale), trova da tempo la sua naturale destinazione nell'autofinanziamento delle imprese; in progetti di investimento propriamente imprenditoriali. La conclusione che si trae dallo svolto ragionamento pare alla commissione una sola: quella di una normativa sospettata di contrastare con alcune disposizioni della Costituzione; e segnatamente: con l'art. 3 della Costituzione perche' viene creata una discriminazione tra sostituti di imposta solo alcuni dei quali chiamati ad effettuare una ritenuta a titolo di acconto in un momento ben anteriore a quando si verifica la manifestazione di ricchezza tassabile (l'erogazione del trattamento al dipendente) rispetto ad altri; con l'art. 53 della Costituzione perche', oltre ai motivi sopra indicati, viene previsto a carico del sostituto un prelievo coattivo di ricchezza non correlato ad alcuna concreta manifestazione di capacita' contributiva in quanto il numero, il livello retributivo e l'anzianita' dei dipendenti ai quali e' collegato l'accantonamento del T.F.R. non possono in alcun modo considerarsi manifestazioni, neppure indirette, di reddito o di patrimonio tassabili. La questione appare alla commissione non manifestamente infondata per i motivi dianzi elencati, e altresi' rilevante ai fini del decidere perche', ove la normativa denunziata fosse ritenuta incostituzionale, nessun ostacolo si frapporrebbe all' accoglimento della domanda di rimborso da parte dell'istituto (sull'ammontare delle somme versate e chieste in restituzione non risulta del resto esservi alcuna contestazione tra le parti). Gli atti devono quindi essere trasmessi alla Corte costituzionale per il giudizio di costituzionalita' sopra indicato, con sospensione del giudizio in corso.